Non riesco a scrivere e non c’è cosa migliore che cominciare a scrivere così. Dal niente. Dal vento che fa ridere la pioggia e lei vorrebbe ululare nel buio.
E m’intimorirei, io, se non fosse che mi parli, ad alta voce, e che quasi le copriamo, io e te, quelle risate. Son belle da sentire, sui vetri, tra le fronde. Da ascoltare finemente.
M’immagino corse di gambe esili e altalene e scale e rampicanti che sembrano gocciolare per i muri di confine. Un po’ come l’edera travestita da felce. Qui in campagna.
Forse quelle gambe non sono le mie, forse le mie braccia allo specchio hanno ogni giorno un difetto in più. Forse vedo poco distante, forse riesco ad apprezzare a giorni alterni i miei occhi, forse mi sembreranno più limpidi domani. Forse non so fermarmi. Forse dovrei ascoltare, finemente.
Forse non sono nemmeno i miei ricordi a venirmi in mente, stanotte, ma delle profezie o delle immagini fiabesche. Forse abbiamo anche smesso di parlare, ad alta voce, e ci stiamo solo più guardando negli occhi, tra le felci travestite da edera. Qui in campagna.
L’umidità cade sullo sfondo bianco, mentre dico che non riesco a scrivere e perdo il filo del discorso. Hai sentito qualcosa? Bisognerebbe ascoltare. Mi arrocco per terra anche se pare impossibile, stravagante, quasi drastico come quel modo che ho per troncare le mie frasi. Diresti timidezza? Diresti che quella di ieri era afa?
Piove. Qualcosa ride mentre il vento la trapassa ma non si arrende, ride ancora. Qualcosa canta mentre un quarto d’ora suggella il venerdì dai toni della luna di miele e nel frattempo rimane quel tuo viso steso, tra il ragazzo e l’uomo, immobile e leggermente adirato. Piove adagio.
Ti dicevo ‘ottuso’ e tu t’incupivi. Subito dopo rimanevo in silenzio e tu intavolavi la maturità. Al centro, mazzi dei fiori più belli, col portacenere pieno e le mani impassibili sotto agli sguardi bassi. La fierezza delle tue parole accese, che poche volte hai saputo anche spegnere, dei tuoi scatti, del temperamento impaziente per scoprire da dove viene e dove porta. Guai.
Dicevi di non averla ancora, la maturità, e spiazzavi la melodia del vento e della pioggia e cambiavi faccia mentre ti accendevi un’altra sigaretta. Silenzio. Dicevi che un giorno non ne vale mai un altro e mi raccontavi per ore dei sogni che facevi sui miei capelli appena lavati.
T’ho detto, allora, di sdraiarti accanto a me. Per la musica, per l’aria, per me, per tutte le cose che mi riescono quando sembra che non riesco a combinare nulla. Dal nulla, così. Esce un suono, anche solo l’idea, nella mente, sulla lingua, tra le foglie che si ritrovano tenere dopo la notte.
Ascolta, finemente, potrebbe essere una danza, la pace. Il silenzio delle parole quando non so scrivere, il silenzio dei gesti quando non so fare. Eppure scrivo, eppure faccio. Potrebbe essere il corpo che vive, perfettamente, o potrebbero essere tutte quelle piccole cose che ti circondano, mi circondano, ci circondano. Se ascolti, se ascolto, se ascoltiamo. Il silenzio.
Con le unghie sporche di resina. Odore balsamico addolcito col caramello. A cercare le pigne fra l’edera e la felce.
Non è nulla. Piove adagio.
(a.t)
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