martedì 11 agosto 2015

Vladimir Majakovskij, Il flauto di vertebre

 Il flauto di vertebre


FLAUTO DI VERTEBRE

di Vladimir Majakovskij (1893-1930)


PROLOGO
A tutti voi

che siete piaciuti e piacete,

come icone custoditi nella grotta dell’anima,

levo, come calice di vino in un brindisi,

il cranio riempito di versi.
Sempre più spesso penso:

perché non mettere il punto di una pallottola

alla mia fine?

In ogni caso

io darò oggi

l’ultimo concerto.


Memoria!

Raccogli nella camera del cervello

le file interminabili degli amati.

Versa di occhio in occhio le risate.

Vesti di nozze passate la notte.

Di corpo in corpo versate l’allegria.

Nessuno deve dimenticare questa notte.

Io suonerò oggi il flauto

delle mie vertebre.

1
Sgualcisco verste di strade col furore dei passi.

Dove vado con questo inferno nascosto!

Da quale Hofmann celeste

sei stata concepita, maledetta?!
Stanno strette le strade alla bufera dell’allegria.

Ha richiamato maree di attillati la festa.

Penso.

I pensieri, grumi di sangue,

grondano malati e rattrappiti dal cranio.
Io,

taumaturgo di ogni evento festivo,

non ho nessuno con cui andare alla festa.

Basta, vado a schiantarmi sul dorso

e svuoterò la nuca contro il selciato del Nevskij!

Ho bestemmiato,

urlato che non c’è nessun dio.


E dio dalle profondità dell’inferno ha pescato una,

che fa palpitare e tremare le montagne,

ed ha ordinato:

ama!
Dio è contento.

Sotto il cielo, nel baratro

un uomo tormentato si è abbrutito e si è spento.

Dio si stropiccia i palmi delle manucce.

Dio pensa:

me la paghi, Vladimir!


Lui, proprio, lui,

per non farmi capire chi sei

ha pensato di darti un regolare marito,

e sul pianoforte ha posto note di carne umana.

Se ad un tratto mi affacciassi guardingo alla stanza da letto

e segnassi su di voi con la croce la coperta trapunta,

lo so,

si sentirà odore di lana bruciata

e si sprigioneranno fumi di zolfo dalla carne del diavolo.
E invece, inorridito fino al primo mattino

al pensiero che ti avevano condotta ad amare,

ho smaniato


e cesellato versi dagli urli

a metà ormai gioielliere impazzito.

Giocare a carte?

Nel vino

sciacquare la gola esausta del cuore?
Vai via!

Non voglio!

Tanto

lo so

creperò presto.
Se ci sei davvero,

dio,

dio mio,

se tu davvero hai tessuto il tappeto di stelle,

se tu, signore, mi hai donato il martirio

di questo dolore

moltiplicato ogni giorno,

indossa la catena del giudice.

Aspetta la mia visita.

Io sono preciso,

non tarderò di un giorno.

Ascolta,

inquisitore supremo!
Stringerò la bocca,

non lascerò uscire neppure un grido

attraverso le labbra morsicate.

Legami alle comete, come a code

di cavallo,

trascinami,

lacerandomi ai denti delle costellazioni.

Oppure:

quando la mia anima sloggiata

si presenterà al tuo giudizio

tu,

ottusamente accigliato,

annoda la corda della Via Lattea

e impiccami come un criminale.

Fai ciò che vuoi,

squartami, se vuoi.

Io stesso, o giusto, laverò le tue mani.

Ma,

ascolta!


Portati via questa maledetta

che hai voluto mia amata.
Sgualcisco verste di strade col furore dei passi.

Dove vado con questo inferno nascosto!

Da quale Hofmann celeste

sei stata concepita, maledetta?!

2
Il cielo,

che ha dimenticato nella bruma il suo azzurro,

e le nuvole, vaganti come profughi cenciosi,

accenderò del mio ultimo amore,

splendente come il rossore di un tisico.



Coprirò di gioia i gemiti

di ammassi

senza ricordo di case e conforti.

Uomini,

ascoltate!

Uscite dalle trincee.

Combatterete dopo.
Anche se,

ebbra di sangue, procede la guerra

barcollante come Bacco,

non invecchiano le parole dell’amore.



Cari tedeschi!

Io so

che avete sulle labbra

la Margherita di Gothe.
Muore sulla baionetta sorridendo

il francese,

mitragliato si fracassa con un sorriso

l’aviatore,

se la tua bocca

ricordano nel bacio,



Traviata.
Ma a me non interessa questo roseo tenerume,

masticato nei secoli.

E’ ora di gettarsi ai piedi di nuove creature!

Canto

te

colorata di rosso.
Forse di questi giorni,

orribili come punte di baionette,

quando i secoli avranno bianca la barba

resteremo soltanto

tu

ed io,

che dietro a te mi precipito di città in città.
Se ti porteranno via, al di là del mare,

e ti nasconderai nella tana della notte,

io ti bacerò attraverso le nebbie di Londra

con le labbra infuocate dei lampioni.
Se condurrai le carovane nella calura del deserto,

dove vegliano i leoni,

a te

porgerò nella polvere, battuta dal vento,

la guancia rovente del Sahara.
Se poserai un sorriso sulle labbra,

ammirando

la bellezza del torero,

un lampo di gelosia

lancerò sul palco

dall’occhio morente del toro.



Se muoverai sul ponte il passo distratto

e penserai

che sarebbe bello gettarsi,

sarò io

sotto il ponte la corrente della Senna,

ti chiamerò,

mostrando i denti marciti.
Se con un altro illuminerai della foga dei cavalli

la Strelka o Sokol’niki,

io, arrampicato lassù,

sarò una luna struggente nella nudità dell’attesa.



Se sarò chiamato da loro,

forte come sono,

e mi ordineranno:

vai a ucciderti in guerra!

il tuo nome

sarà l’ultimo,

rappreso sul labbro lacerato dalla bomba.



Morirò con la corona?

A Sant’Elena?

Inforcate le onde della burrasca quotidiana,

io sarò ugualmente candidato

e al trono universale

e

ai ceppi.
Se sarò destinato alla corona,

ordinerò al popolo

di coniare

la tua faccina

sull’oro solare delle mie monete.

Oppure,

lì dove la terra scolorisce nella tundra

e il fiume tratta con il vento del nord,




scriverò il nome di Lilja graffiando la catena

e la consumerò di baci nel buio della cella.

Ascoltate, dimentichi dell’azzurro del cielo,

arruffati

come animali!

Questo amore,

forse l’ultimo della terra,

s’è acceso come il rossore di un tisico.

3
Dimenticherò anno, mese e giorno.

Mi chiuderò da solo, io e il foglio di carta.

Avverati, sortilegio disumano

di parole illuminate dal dolore!
Oggi, appena entrato da voi,

ho percepito

un certo disagio.



Tu, vestita di seta, nascondevi qualcosa

e nell’aria si spandeva odore di incenso.

Sei contenta?

Un gelido

"molto".

Caduto dallo sconcerto l’argine della ragione,

accumulo angoscia, ardente e febbrile.
Ascolta,

tanto

non puoi nascondere il cadavere.

Rovesciami sul capo l’orribile parola!

Tanto,

come in un megafono,

ogni tuo muscolo

grida:

E’ morto, morto, morto!

No,

rispondi.

Non mentire!

(Come posso andar via così?)

I tuoi occhi si sono infossati nel viso

come due tombe.
Tombe come voragini,

senza più fondo.

Mi sembra

di precipitare dall’impalcatura dei giorni.

Tesa sul baratro la corda dell’anima,

io ondeggio, giostrando con le parole.
Lo so,

l’amore l’ha già consumata.

Intravedo la noia da sintomi vari.

Ringiovanisci nella mia anima,

fai conoscere al cuore tutta la festa del corpo.
Lo so,

le donne si pagano.

Ma che male c’è

se intanto

ti vesto di fumo di tabacco

invece che di lussuosi capi parigini.
Come l’apostolo al tempo dei tempi

porterò il mio amore

per migliaia di migliaia di strade.

Nei secoli è pronta per te una corona

e sulla corona le mie parole

sono un arcobaleno di spasimi.
Come gli elefanti hanno conquistato la vittoria di Pirro

giocando con la loro mole,

io ho sbaragliato il tuo cervello con l’andatura del genio.

Invano,

non sono riuscito a strapparti.
Gioisci,

gioisci,

mi hai sfinito!

Adesso

è tale la tristezza

che vorrei correre fino al canale

e infilare la testa nelle fauci dell’acqua.

Mi hai dato le labbra

con aria scontrosa.

Le ho sfiorate e sono gelato,

come se con labbra penitenti baciassi

un monastero scavato nella rigida roccia.
E’ sbattuta

la porta.

E’ entrato lui,

irrorato dall’allegria delle strade.

Io,

squarciato quasi dall’urlo,

gli ho gridato:

"Va bene!

Me ne vado!

Va bene!

Resterà tua.

Falle cucire tanti stracci,

che le fragili ali s’impinguino nelle sete.

Attento, però, che non voli.

Appendi come una pietra

al collo di tua moglie il monile di perle!"
Oh,

che notte!

Io stesso ho stretto sempre più forte l’angoscia.

Inorridito dal pianto e dai miei sghignazzi,

si è piegato in una smorfia il muso della stanza.
E in una visione appare l’impronta della tua immagine,

l’hai accesa sopra il tappeto coi raggi degli occhi,

é come se un novello Bjalik sognasse

l’abbagliante regina dell'ebraica Sion.
Nel tormento

sono sprofondato in ginocchio

davanti a colei che ho ceduto.

Re Alberto,

che ha ceduto

tutte le città,

è al confronto un festeggiato ricoperto di doni.
Fiori e erbe, indoratevi nel sole!

Elementi, vivete una perenne primavera!



Io voglio bere soltanto

il veleno senza fine dei versi.
Tu che hai derubato il cuore,

lasciandolo vuoto,

che hai tormentato la mia anima nel delirio,

accetta, cara, il mio dono.

Io, forse, non potrò inventarmi più nulla.




Segnate a festa il giorno di oggi.

Avverati,

sortilegio uguale alla crocifissione.

Guardate,

sono trafitto sul foglio di carta

con chiodi di parole.

(1915)
Traduzione inedita di Stefano Trocini

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