lunedì 28 gennaio 2019

LA MIA VITA A PUNTATE

La mia vita a puntate



NASCITA

Gennaio 1942, Catania, un aereo alleato mi sganciò e prima di atterrare accanto a
mia madre, durante la discesa ruppi un lampadario.
Mia madre aveva pianto per nove mesi, tutto il periodo di gravidanza, perché si
sentiva troppo vecchia (aveva superato i quaranta) per mettere al mondo un figlio.
Col senno di poi, penso che inconsciamente temesse di tramandarmi un gene
difettoso, come avvenne.
La mia sorella più grande (12 anni di differenza)... mi adottò e per un po di tempo fu
la mia vera madre.



PRIMI ANNI

Mi hanno detto che ero un bambino attento, curioso e con  occhi penetranti, quasi
inquietanti. Dovrei credere alla mia sorella maggiore, ma lei era un teste poco
attendibile avendo avuto un debole per me che durò tutta la vita (è morta da
parecchi anni).
Frequentai l'asilo presso un collegio di suore (raccomandato dalla solita sorella che si
era diplomata maestra e insegnava, sfruttata in questo collegio: senza stipendio ma
le serviva come punteggio per il concorso), le Verginelle al Borgo. Borgo era il
quartiere di Catania dove abitavamo; le Verginelle erano bambine orfane ospitate
presso questo collegio tenuto da suore olandesi, che con immenso affetto  si
prendevano cura dell'educazione morale e spirituale delle bambine: sveglia alle 5 del
mattino, santa Messa, pulizia del pavimento del refettorio, a ginocchioni (il risultato
geloni da far spavento), frugale colazione e poi di corsa in classe per la lezione. A
volte capitava che si addormentassero, fra la declinazione del verbo essere e quella
del verbo avere (anche se non avevano niente) ma ci pensava la suora che le
bacchettava invitandole a prestare attenzione alle lezioni perché dalla loro istruzione
dipendeva il loro futuro. Qualcuna, da grande, uscita dal collegio, intraprese una
onorata professione presso una delle case chiuse confinate in una via di Catania, Via
Delle Finanze. Se avete letto il Bell'Antonio di Brancati, questa via è quella dove morì il
padre di Antonio, mentre faceva esercizi ginnici sopra una ragazza, per riscattare l'onore del figlio gay.

ASILO

Non è un caso che ho tirato in ballo Brancati. Mia sorella Ada (la mia seconda madre),
che frequentava le magistrali, ebbe per un intero anno come supplente di lettere,
si... sbalordite, proprio lui... Vitaliano Brancati.
Ce la fece pagare tutta la vita con questa storia: detta e ridetta una infinità di volte
e tutte con leggere varianti...
Ritorno a bomba. Due anni di asilo, una suora col cappellone come guardiana ma, per
fortuna, c'erano le gemelline Bertelli.
Due deliziose bambine, identiche, ben vestite sotto il grembiulino bianco d'ordinanza.
I genitori avevano in via Etnea (l'Etna la fa da padrona e con i suoi tremila metri d'altezza
ci plasma, ci incatena, ci violenta psicologicamente) un negozio chic di profumi e
balocchi.
Per farla breve, m'innamorai di... (considerato che erano due gocce d'acqua e non
avrei potuto distinguere l'una dall'altra) tutte e due. Ero un bel bambino, con due
occhioni profondi e scuri, e il mio fascino non lasciava insensibili le gemelline, che
avendo dentro di loro il dna comune a tutte le creature di genere femminile dell'universo, quando
mi dichiarai, in coro, mi risposero: "Deciditi, o me o lei e col ditino si segnarono a
vicenda". Terrorizzato di finire come Zeno Cosini (che lessi solo dopo qualche anno),
scappai e mi rinchiusi in un armadietto del refettorio; mi trovarono a sera inoltrata,
anzi mi trovò Lupacchiuni, un cane dei vicini che conosceva molto bene il mio odore,
nell'attesa mi ero pisciato addosso.
Questa giornata d'amore disilluso, di avventura e di, diciamolo, vergogna, marchiò i
miei due anni d'asilo.

ELEMENTARI (prima parte)

Fortunatamente il tempo sana ogni ferita, ero ancora innamorato delle gemelline ma
non lo davo a vedere. A volte, durante la ricreazione, in cortile, mi nascondevo dietro
uno dei banani (si, a Catania crescono e portano a maturazione delle piccole banane
dolcissime) piantati nel giardino del collegio, giardino che si estendeva, lungo un lato
del cortile, per qualche centinaio di metri. Per me rappresentava la mia personale
foresta tropicale. Dal mio nascondiglio potevo agevolmente guardare in direzione
delle altalene poste al centro del cortile e facevo la posta alle sorelline che,
spensierate, volteggiavano nell'aria, spinte dalle compagne. Il grembiulino si
allargava, insieme al gonnellino scozzese, lasciando intravedere il bianco delle
mutandine. Non so perché ma io arrossivo, ritenendo che non era bello stare
nascosto a spiare... ma non riuscivo a staccare gli occhi dalle altalene.
Moravia non aveva ancora scritto "L'uomo che guarda" ne, penso, avesse mai avuto
in mente di scrivere "Il bambino che guarda".
Per fortuna, l'estate del "47 si portò via ogni pensiero a luci rosa, ma con esso anche
ogni spensieratezza.
Primo giorno di scuola vera. Ada mi spiegò che le elementari erano una cosa seria. Si
imparava a leggere e scrivere. La maestra prendeva il posto della suora. "Sei tu la
mia maestra?" le chiesi. "No sarà Lina, la mia ex compagna di scuola". Lina abitava di
fronte a noi ed io le davo del tu.
Non feci più domande perché la mia attenzione si spostò da mia sorella al grembiulino.
Non era più bianco ma nero! Ne rimasi turbato.
Per me stava a significare che un tragico cambiamento stava per minacciare la mia
esistenza.
Mia sorella, come sempre, mi accompagnò al portone del collegio. Mi teneva per
mano e nell'altra teneva la mia cartella (altra novità). Entrammo e il lungo corridoio,
che conoscevo bene, quella mattina, si era trasformato in un drago. Terrorizzato,
lasciai la mano di Ada e mi infilai nella portineria, saltai in braccio alla signorina
Cambria e con gli occhi lucidi gridai: "io non entro, resto qui con te!"
La signorina Cambria era il risultato dell'incrocio tra una nana e uno scarafaggio. Si
raccontava che era stata partorita da una "Verginella al Borgo" che per il timore di
essere bacchettata per via del suo pancione enorme, si era nascosta all'interno del
locale portineria e li si era liberata del suo fardello. La piccola Cambria era stata
accolta dalle suore e, cresciuta, le era stato assegnato l'incarico di portinaia. A
dispetto del suo aspetto la Cambria aveva un cuore d'oro ed una voce melodiosa.
Devo riprendere il filo del mio racconto autobiografico.
Quel giorno, e per tutta la settimana, la mia prima classe fu la portineria e le lezioni
mi vennero impartite dalla Cambria che mi cantò tutto il suo repertorio di laudi,
glorie e paternostri!


Questo mio comportamento si dimostrerà caratteriale: difficoltà ad accettare i
cambiamenti. Anche se poi, in tutto l'arco della mia esistenza, di cambiamenti ne ho
dovuto fare molti, e non è ancora finita.
Dopo la prima settimana in portineria, il lunedì successivo feci il mio ingresso in aula,
come se fosse la cosa più naturale di questo mondo. In cattedra c'era la maestra, Lina,
che conoscevo da sempre e alla quale davo del tu. Mi avvicinai, lei mi sorrise, ed io
con serietà: "Buongiorno Signorina". Da quel momento, anche se nessuno me lo
disse mai, anche quando veniva in casa nostra a studiare con Ada per il concorso
magistrale che nel frattempo era stato bandito, le ho sempre dato del lei. Anche
questo atteggiamento la diceva lunga sul mio rapporto con le autorità: rispettarle ma
tenerle a debita distanza.


LUPACCHIUNI

Il periodo trascorso alle elementari è stato uno dei più sereni della mia vita. Senza le
gemelle Bertelli, che avevano cambiato scuola (ecco, questo fatto mi aveva
procurato un leggero senso di colpa, tutto sommato accettabile), in classe non
c'erano altre gemelle.
Mi piaceva Adalgisa, la sorella della maestra, ma era per ovvi motivi in un'altra classe
e tanto per rimanere in famiglia dopo una sbandata, durata qualche mese, per la
maestra Lina (amore impossibile, ero troppo maturo per lei) il mio delirio dei sensi si
acquietò.
E poi c'era in vista un radicale cambiamento. Fino alla seconda elementare le suore
accettavano anche i maschietti, dalla terza in poi solo le femminucce; mi sarei
dovuto abituare ad un'altra scuola. La più vicina era una scuola statale notoriamente
frequentata dal basso ceto, da figli di mafiosi e di comunisti (un primo tentativo di
compromesso storico) e poi era priva di portineria e di conseguenza nessuna
signorina Cambria.
Fortunatamente, per il principio che la legge è uguale per tutti, quattro bambini
furono ammessi a frequentare il collegio fino alla quinta. Io, perché fratello di una
maestra che era stata spremuta, per qualche anno, come un limone (prima di vincere
il concorso per maestra di ruolo, ma questa è un'altra storia) a stipendio ZERO!
Il figlio di un proprietario di mucche (allora a Catania c'erano degli appezzamenti di
terreno vicini al centro abitato), con la scusa che si era legato a me ed aveva giurato
che si sarebbe fatto annegare in un orcio di latte appena munto se lo avessero
strappato alle mie cure (gli passavo i compiti). Questa la versione ufficiale! La realtà
era più prosaica: il padre di Bastiano riforniva ogni mattina di latte fresco la mensa
delle orfanelle che, allergiche, non potevano berlo e di conseguenza, il latte ancora
caldo, finiva nelle ciotole delle suore olandesi che per non buttarlo via, sarebbe stato
un peccato mortale, lo utilizzavano per la loro colazione: latte e pan di Spagna (ma
non erano  olandesi?).
Per il privilegio concesso agli altri due miei compagni nessuno seppe mai le
motivazioni che avevano spinto la Madre Superiore a questo nobile gesto (bontà
cristiana?).
Comunque tutto andava per il meglio se... c'è stato spesso un "se" nella mia vita.
Se non ci avesse messo il suo zampino (è proprio il caso di dirlo) il cane Lupacchiuni.

Perché Lupacchiuni?
Perché somigliava ad un lupo che aveva superato indenne almeno un centinaio di
incroci con cani di razza incerta!
Era un cane buono come il pane, quando il pane era buono. Apro una parentesi:
vicino a casa mia c'era un antro affumicato con un forno a legna, ma così nero che
ogni tanto Vulcano scendeva dalla Montagna ( per i catanesi il vulcano Etna era
soltanto "a Muntagna") per rifarsi il trucco. Questo "panificio" sfornava un pane che
profumava di ginestra perché per appiccare il fuoco, prima dei tronchi di legno, il
panettiere (a volte mi veniva il dubbio che fosse lo stesso Vulcano quando non aveva
voglia di ritornare a casa) utilizzava fascine di ginestra.
Ma tornando all'argomento di questa puntata, Lupacchiuni era il compagno di giochi
di tutti i bambini del Borgo, della Consolazione e della "Badiedda" (quartiere che
ospitava il collegio di cui sopra: monache, badia, badiedda, i conti tornano).
Per tutta l'estate tormentavamo il nostro amico a quattro zampe e lui si faceva
tormentare con gioia. Il suo pelo a volte presentava qualche livido (gli adulti non
avevano la stessa attenzione di noi bambini) da cinghiata. Pertanto, nessuno di noi si
accorse di strane chiazze rotonde che ornavano il pelo di Lupacchiuni, fino a quando
le nostre madri si accorsero che le stesse chiazze, prive di capelli, abbellivano la
testa dei loro figli. Tutti i bambini e i ragazzi dei quartieri sopra citati
avevano contratto la tigna! Il panico, solo a casa mia, perché mio padre ansioso oltre
l'umana sopportazione, pensò che sarei rimasto senza capelli e forse mi si sarebbero
formati buchi nella scatola cranica e sarebbe sopraggiunta la morte accompagnata da
atroci dolori.
Gli altri genitori, portarono i figli in farmacia e con una tintura che il farmacista
consigliò, nel giro di pochi giorni debellarono la tigna!
GLI ALTRI... ma mio padre si fece consigliare uno specialista dermatologo di origine
tedesca (io ho sempre pensato che fosse stato addestrato dal dott. Mengele e
capirete il perché), il quale dopo aver visionato la mia cute si espresse in questo
modo: "Grave, molto grave. Meno mali che avete portato in tempo questo giovane
soldato, scusate me, non parlo benissimo italiano, questo ragazzo da me".
Insomma, morale della favola, secondo l'illuminato professore, laureato presso la
migliore università di Berlino, correvo il rischio di rimanere completamente calvo.
I capelli sarebbero caduti a ciuffi e non sarebbero più ricresciuti.
Devo aprire una parantesi. L'ansia di mio padre, che in parte io ho ereditato,
fortunatamente mitigata dalla strafottenza di mia madre, aveva un suo perché.
Era il più grande di tre fratelli (due maschi e una femmina). A otto anni perse la
mamma che a causa di un attacco di epilessia, cadendo, batté la testa su uno spigolo
e morì di colpo. Mio nonno passò all'altro mondo per motivi che non conosco ma che
immagino: vedovo, con tre figli piccoli...
Mio padre, si ritrovò a nove anni, responsabile di due fratelli più piccoli che furono
accolti in orfanotrofio. Lui fu affidato a suo nonno che non potendolo mantenere fu
costretto a trovargli un posto di garzone preso un calzolaio. Per fortuna i miei nonni
paterni erano proprietari di alcune case in centro, che furono affidate, per
l'amministrazione, ad uno zio di mio padre che, con un imbroglio, le vendette e poi
espatriò in Argentina. Ora capite perché mio padre era ansioso? qualche valida ragione
l'aveva.

Il seguito alla prossima puntata... se ci sarà!

(franco guglielmino)

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