HO UCCISO SHAHRAZAD di JOUMANA HADDAD
Una donna araba
che legge il marchese de Sade
I libri sono l’unico posto al mondo in cui due sconosciuti
si possono incontrare intimamente.
MAY ZIADEH, poetessa e saggista libanese (1886-1941)
Sono sempre stata quella che, con disapprovazione o simpatia, chiameresti una “cattiva ragazza”. Il ricordo più vivido che ho di me stessa da piccola è quello di una bambina insaziabilmente curiosa che aspettava con impazienza che i propri genitori uscissero di casa per porre una sedia davanti all’immensa libreria di papà, salirci sopra e afferrare quello che si nascondeva sui ripiani più alti. Durante l’infanzia pensavo che due fossero le cose che valeva la pena fare quando restavo da sola: leggere e toccarmi. Entrambe le azioni necessitavano di solitudine per essere totalmente godute.
Mia madre ama ricordare tre immagini della mia infanzia che ritiene particolarmente rappresentative del mio carattere. A poche ore dalla nascita, lei dice che avevo già gli occhi aperti e guardavo con ingordigia il mondo attorno. Le infermiere le assicurarono che raramente avevano visto un neonato così attento e “affamato” di ciò che lo circondava.
La seconda immagine è legata, sin dai nove mesi, alla resistenza che opponevo a fare cose contro la mia volontà: indossare lo stretto cappotto rosso che m’impediva i movimenti o bere latte quando non ne avevo veramente voglia. Si racconta che fossi solita graffiare, mordere e anche sputare, per difendermi.
Poi c’è un’ultima strana immagine. Prima ancora che imparassi a camminare, ogni volta che mia madre doveva uscire e non c’era nessuno che potesse badare a me, mi metteva su una piccola sedia, posta su un tavolo alto. Mi lasciava lì, sola, sicura che non mi sarei mossa. Era certa che fossi consapevole che, muovendomi da lì, mi sarei fatta molto male. E così tornava e mi trovava esattamente come mi aveva lasciata, seduta tranquilla sulla sedia di legno, sana e salva, molto probabilmente intenta a sognare la mia strada verso il mondo.
Insaziabile, insubordinata e consapevole: tre elementi essenziali della mia personalità, che non mi hanno mai abbandonato – credo di poterlo asserire senza rischiare di sembrare arrogante o autoindulgente. Non so se queste tre storie appartengano alla tendenza, tipicamente materna, di adulare i propri bambini, o alla verità. So però che quell’ingorda neonata dagli occhi verdi spalancati, quella ribelle di nove mesi che non accettava di essere forzata a fare qualcosa senza combattere con i denti e con le unghie, quella bimba che a un anno sapeva che a volte era meglio restare ferma per evitare lividi e danni, è oggi la stessa donna che ha scelto, passo dopo passo, contro la logica dei tempi e dei luoghi, di vivere una vita atipica.
Tuttavia, anche dal più fertile di tutti i terreni non crescerebbe un albero, se non vi si piantasse un seme. Qual era il mio seme? Qual era, ed è ancora, il mio più grande mentore in questo continuo viaggio?
Un complice onnipotente chiamato Letteratura
(f.g)
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