Lo toccai e mi presentò la morte. Il primo contatto, tattile, visivo, col cancro di mia madre. Se lo stava portando addosso, silenziosamente e consapevolmente, da due anni: gli anni della malattia di mio padre.
Mai una mammografia, mai un controllo. Aspettò un tempo inaudito, letale, per andare dal medico.
Nell’arco di una settimana affrontò visita chirurgica e conseguente ago aspirato che diede il responso che ci si aspettava: carcinoma mammario.
Non è intellegibile, da chi non ha avuto esperienze simili, l’ottovolante di stati d’animo che si affronta, i picchi di sensazioni e pensieri opposti che s’intrufolano velocissimi nella mente: “ce la farò”, “non ce la farò”, “perché proprio a me”, “perché non sono andata dal medico prima”, “spero di guarire”. Le parole che mi invadevano il cervello non erano molto diverse da quelle a cui pensava mia madre.
Erano i giorni in cui tutto, cioè la vita nel quotidiano, veniva vissuto in superficie, perché più a fondo il posto era già occupato dal cancro e da tutti i suoi effetti collaterali.
L’intervento consistette in una mastectomia totale del seno destro con svuotamento ascellare. Gli esami successivi scongiurarono il pericolo di metastasi ossee ed epatiche, ma i linfonodi erano interessati in profondità. Il tumore era infiltrante, già di 4° grado.
Dovette affrontare pesanti sedute di chemioterapia e tutta la serie di problemi che l’accompagnarono: spossatezza, debilitazione, perdita dei capelli, nausea.
Con grande coraggio e determinazione superò tutto. Anche la mutilazione. A che prezzo però e con che sentimenti esattamente non saprei dire.
Mia madre è sempre stata estremamente riservata. Non si è mai confidata molto con me. Ebbe problemi, i primi tempi, ad affrontare la visione della cicatrice, questo lo so per certo, ma non ricordo mi abbia mai parlato delle implicazioni psicologiche più profonde.
Per quattro anni la vita proseguì senza problemi. I capelli erano ricresciuti, l’energia era ritornata, i controlli erano sempre confortanti.
Ripresero vigore, un’estate. Un valore sballato ed un insistente mal di schiena avevano costretto a nuovi esami. Localizzazione epatica, polmonare, ossea.
Ricominciò tutto, daccapo, con una differenza però: avremmo dovuto vivere fianco a fianco col cancro, che, adesso, diventava la nostra normalità.
Si fece largo, tra i vari discorsi che si affrontavano quotidianamente, il suo senso di colpa: il ritardo con cui si era presentata dal medico e l’errore, gravissimo, di non essersi mai sottoposta alla mammografia annuale.
Pregai che le nuove sedute di chemio ci venissero in aiuto. In effetti, sembrava funzionassero. Ma questa volta furono più pesanti da sopportare e furono necessarie diverse pause per permettere ai globuli rossi di rigenerarsi.
La prognosi non era stata ben specificata. Non si era parlato del tempo che restava, con l’oncologa. Eravamo incoraggiate, entrambe, dalla fermezza con cui la chemio stava impedendo alle metastasi di proliferare. Questo poteva bastare. Ed era di sprone per cercare di mantenere ritmi e abitudini di prima, anche se la debolezza di mia madre peggiorava gradualmente.
Circa un mese dopo, tornò a casa dal Day Hospital oncologico molto in ritardo, rispetto al solito. Ed era anche molto arrabbiata. Mi spiegò che c’era stato un disguido; che avevano fatto confusione col suo prelievo; che aveva dovuto chiedere ad un’ infermiera come mai ritardavano così tanto a farglielo. L’infermiera le fece notare che il prelievo le era già stato fatto e che come poteva notare, aveva il cotone imbevuto di disinfettante al braccio. Lei se lo tolse e rispose che non si vedeva il foro dell’ago in entrata. Con molto disappunto mi mostrò l’impegnativa per una Tac al cervello. Era offesa e continuava a ripetere che lei non era matta e che il prelievo non gliel’avevano fatto, ricordandosi anche che aveva un’ omonima, e che, quindi, c’era sicuramente stato uno scambio di persona. Volli credere a lei e non ai brividi che m’invadevano. Volli credere che il foro d’ingresso dell’ago effettivamente non si vedesse e così chiamai il laboratorio: ovviamente mi dissero che il prelievo era stato correttamente registrato.
Come si può descrivere l’inizio della fine?
La TAC diede la risposta temuta: localizzazione cerebrale.
Interruppe la chemio e fece dieci sedute di radioterapia, per cercare di ridurre le metastasi al cervello.
Di quelle sedute, inutili, ricordo i segni sul suo viso, quando usciva dalla terapia.
Una rete le proteggeva il viso e il resto della testa non interessato dalle radiazioni. Si vedevano chiaramente le impronte delle minuscole maglie sulla pelle.
Ancora oggi, dopo sette anni, il dolore della sua perdita vive per immagini, soprattutto: la cicatrice, i referti, il cranio nudo, gli ematomi delle chemio, la rete della radioterapia.
E anche per odori: l’odore dell’ospedale, e l’odore, diverso, che lei aveva, addosso.
E l’odore della morte, quando spiegai alla dottoressa che la seguiva che da qualche giorno non riusciva a stare in piedi, in equilibrio, che non controllava bene gli stimoli fisiologici.
La volle vedere.
La sentenza fu perentoria e senz’appello. Sospesero definitivamente la chemioterapia.
“Non ce n’è più bisogno”, mi disse piano l’oncologa.
La lama entrò freddissima nella mia carne e si conficcò, rigirandosi, mentre mia madre salutava le infermiere, convinta di dover riprendere la cura di lì a poco.
I loro sguardi si spostavano da lei a me, che le stavo dietro, cambiando espressione nel breve tragitto, smascherandosi dai falsi “arrivederci” al “ci dispiace tanto”, “coraggio”.
Serve, il coraggio. A mentire. A dire che, dopo che si fosse ristabilita, avrebbe ricominciato le sedute di chemio e che le metastasi al cervello erano diminuite.
Peggiorò rapidamente. Ormai era costretta ad indossare il pannolone. Non riusciva a capire che non si doveva alzare perché la mancanza di equilibrio, dovuta alle metastasi cerebrali, l’avrebbe fatta cadere, a corpo morto. Ed era sempre più debole.
Alla fine, rassegnata, interpellai l’oncologa che mi disse di chiamare subito il reparto di oncologia per il ricovero.
Il tracollo arrivò presto. Dopo qualche giorno d’ospedale, iniziò a soffrire di terribili mal di testa, che i farmaci somministrati alleviavano di poco.
Poi, una mattina, mi disse che si sentiva male, ma non riusciva a spiegare cosa sentisse effettivamente. Lo dissi alla dottoressa di turno.
“E’ l’angoscia della morte. Se lei è d’accordo iniziamo con la morfina”.
Il sonno indotto dalla morfina durò due settimane. Una domenica mattina, mentre ero da lei, ne sono certa, mi sentì. Le scese una lacrima. Era per me. Era il suo addio. Alla vita. A me.
A me, ora, spetta il ricordo. Costruito con le immagini, gli odori e i suoni della malattia che se l’è portata via; un demonio a cui lei, purtroppo, ha lasciato la porta socchiusa.
La differenza, sostanziale, spesso, dipende da noi; a volte, in via esclusiva.
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