martedì 30 aprile 2013

SESSO E GENERE: DIFFERENZA FRA UOMO/DONNA di Diana Bonsignore


PERCHE'? 




In tutto il mondo animale il maschio sviluppa caratteristiche fisiche che lo differenziano dalla femmina (la scoperta dell'acqua calda...).
Il maschio animale è esteticamente  (secondo certi canoni universalmente riconosciuti), per motivi che hanno in natura una loro precisa funzione, più bello e forte rispetto alla femmina della stessa razza e questo allo scopo di avere più possibilità di essere scelto per
l'accoppiamento, dal momento che il fine ultimo è quello di assicurare la sopravvivenza della specie.  Anche fra l'uomo e la donna esistono delle differenze fisiche: la donna ha le ghiandole mammarie molto sviluppate, una diversa linea delle anche, sedere più sporgente, differenze queste che non dovrebbero avere funzioni estetiche in quanto sono tutte legate al ruolo procreativo della donna: ghiandole mammarie per l'allattamento, conformazione delle anche adatte ad accogliere il feto e permetterne lo sviluppo, sedere più sporgente per equilibrare il peso del feto durante la gravidanza. Tutte caratteristiche di utilità senza una funzione estetica perché a ben
guardare l'uomo, come qualsiasi altro esemplare maschio del mondo animale è esteticamente più bello oltre che prestante, con meno sporgenze che ne alterano i lineamenti. Allora perché quelle differenze che abbiamo elencato prima sono diventate stimoli
sessuali per l'uomo. La mancanza dell'estro nelle donne (a differenza delle altre femmine del mondo animale) può essere una delle cause? Forse, ma non è certo l'unica. Si apre, infatti, una serie di punti interrogativi che personalmente mi sono posto e credo di avere trovato alcune risposte in un lavoro, che affronta l'argomento a 360°, tratto dalla tesi di Diana Bonsignore. (f.g)





 SESSO E GENERE: DIFFERENZA FRA UOMO/DONNA di Diana Bonsignore
Tratto dalla tesi di Diana Bonsignore
L’innegabile esistenza biologica di due differenti sessi è un fenomeno naturale, inscrivibile nella categoria dei dati quantitati. L’ineguaglianza genetica, anatomica, riproduttiva ed evolutiva fra uomo e donna è ormai universalmente riconosciuta nell’ambito scientifico. Questa semplice realtà oggettiva non sottintende, o almeno non dovrebbe, alcun giudizio di valore. Sfortunatamente non sempre la prassi segue la teoria e, nella specie umana[1], questo insieme di fatti è stato caricato di tanti e tali significati, da assumere una valenza qualitativa. Un elemento naturale (il sesso) è stato l’inconsapevole creatore di una categoria culturale (il genere), definito da Burr[2] (2003: 22) come segue:
«Il genere è il significato sociale assunto dalle differenze sessuali. Il termine designa la costellazione di caratteristiche e di comportamenti che finiscono per essere rispettivamente associati ai maschi e alle femmine e per ciò da loro attesi all’interno di una particolare società. In altre parole è un termine che designa i concetti di mascolinità e femminilità e le loro differenze, siano esse realmente presenti o supposte tali».
La parola “genere” è stata introdotta nel dibattito scientifico da   Gayle Rubin nel 1975, con l’opera The Traffic in Women[3]. Il termine ha favorito la nascita di un’ottica più articolata, attraverso cui osservare l’interazione fra i sessi, nella quale convivono insieme uguaglianza e diversità, conflitto e complicità.
L’ambito sessuale, in senso lato, ha finito per invadere tutte le manifestazioni umane, persino quelle che poco o nulla,condividono con esso, e ha legittimato una forma di supremazia maschile. Quest’ultima agisce nell’ambito pubblico, ad esempio il posto lavorativo, come nella sfera privata, familiare, e può assumere, di volta in volta, forme plateali, oppure sottili e persino subdole. L’idea di un’identità maschile, contrapposta ad una femminile, influenza ogni aspetto della vita sociale: tale convinzione funge da sostrato a tutte le altre discriminazioni, relative a classe, reddito, etc.
Sembra quasi che la triste ed ineludibile condizione imposta alle donne sia una realtà impossibile da cambiare. Probabilmente, la ragione di ciò si trova nella remota genesi di tale atteggiamento: volendo rintracciare l’origine della disparità fra uomini e donne, bisogna spostare lo sguardo molto indietro nel tempo, cioè nel momento in cui l’uomo primitivo iniziò ad organizzare il proprio pensiero, combinando insieme i pochi e semplici dati in suo possesso. I primi dati provenivano dall’osservazione diretta del corpo, e dell’ambiente in cui esso è immerso, e, sicuramente, poche cose, come l’incongruenza fisica tra i due sessi, si dimostrarono tanto evidenti. Così, la dicotomia maschio/femmina, da inserire nella più generale identico/differente, insieme ad altre coppie oppositive, come quelle giorno/notte, secco/umido etc., costituirono la griglia interpretativa attraverso cui l’individuo strutturò la percezione di sé e la conoscenza della realtà.
Da quel lontano passato, sino ai giorni nostri, l’uomo non ha fatto altro che abbarbicarsi sulla torre formata dalle sue certezze, o presunte tali. Tale propensione, cioè la continua ricerca di punti fermi, è una delle principali caratteristiche umane, insieme ad una spiccata attitudine a rivolgere la propria riflessione verso i grandi enigmi della vita, come l’esistenza o meno di una realtà ultraterrena, trascurando l’analisi dei fenomeni quotidiani, giudicati scontati, o addirittura giusti.
Burr[4] (2003: 13):
«Spesso gli aspetti apparentemente più ovvi della vita, quelli a cui pensiamo di meno e che meno mettiamo in discussione, rappresentano in realtà gli elementi cruciali della nostra esistenza di esseri umani. Di rado siamo consapevoli dell’aria che respiriamo e dell’atto della respirazione. Nondimeno, questi elementi sono fondamentali per la nostra esistenza».
Sicuramente, le brillanti speculazioni filosofiche e le bellissime immagini poetiche inerenti il Paradiso sono fra le vette più alte raggiunte dall’intelletto umano, ma ciò non toglie che l’indagine delle tante disuguaglianze presenti sulla Terra (etniche, sociali, ed ovviamente sessuali) meriti altrettanta importanza. A tal riguardo Burr[5] (2003: 13) ritiene che «il genere (l’identità sessuale) è la quinta sul cui sfondo ciascuno rappresenta la sua vita e che la permea al punto che, come la respirazione, scompare ai nostri occhi per la sua familiarità».
Questa articolo non si propone di cancellare tutte le ingiustizie sessuali “con un colpo di bacchetta magica”, poiché condivido, entro una certa misura, l’opinione di Héritier[6] (2002: 14):
«dubito che si possa mai arrivare a una eguaglianza idilliaca in tutti i campi dal momento che le società non potrebbero essere costruite se non su quell’insieme di armature strettamente saldate le une alle altre che sono la proibizione dell’incesto, la ripartizione sessuale dei compiti, una forma legale o riconosciuta di unione stabile e, aggiungo, la valenza differenziale dei sessi».
E non vuole neppure sposare alcun tipo di causa, neppure quella femminista, poiché penso che non dovrebbe scaturire alcun sentimento di orgoglio dal fatto di nascere donna, piuttosto che uomo, dal momento che l’unica dimensione veramente rivendicabile è quella individuale a mio avviso, come tornerò più in là a sottolineare.
La mia ricerca intende fornire un contributo originale allo studio del rapporto fra sesso e genere. A questo proposito è doveroso sottolineare che le ricerche inaugurate da Margaret Mead, ultimamente, hanno compiuto enormi passi in avanti nell’ambito dell’antropologia americana, francese ed inglese, mentre, in Italia, ci siamo trovati per lungo tempo in una posizione di ritardo rispetto alle altre scuole europee e ,solo oggi, grazie ad alcuni studiosi[7], stiamo tentando di recuperare il divario accumulato.
Sino al 1700 non veniva riconosciuta al corpo femminile  un’esistenza autonoma, ma lo si considerava una versione inferiore di quello maschile. Secondo questa concezione “ad un solo sesso” gli organi esclusivamente femminili erano copie meno sviluppate degli organi maschili. Ad esempio, la vagina era vista come  un pene imperfetto. Anche esperienze esclusivamente inerenti  la vita delle donne, come il ciclo mestruale, non erano interpretate nel giusto modo: si credeva che questo sanguinamento coinvolgesse solo le donne perché creature più calde degli uomini e, per tale ragione, costrette ad eliminare più liquidi in eccesso.
Dopo il 1700 si diffuse una nuova visione, cioè quella “bisessuale”.
Piccone Stella e Saraceno[8] (2006: 47):
«Gli organi che avevano avuto lo stesso nome – le ovaie ed i testicoli – erano ora linguisticamente distinti. Gli organi che non erano contraddistinti da un loro nome specifico – la   vagina ad esempio – ne ricevettero uno. Quelle strutture che fino ad allora erano state considerate comuni sia all’uomo che alla  donna – lo scheletro ed il sistema nervoso – furono differenziate perché potessero corrispondere alla cultura del maschio e  della femmina».
La visione bisessuale acquistò progressivamente sempre più credito durante il periodo compreso fra il 1800 a la prima parte del 1900, condizionando notevolmente la società e la cultura: l’evoluzione della nozione di genere influì indirettamente sull’avvento dell’industrializzazione, sul diffondersi dell’urbanizzazione, sulla divisione fra lavoro domestico e sfera pubblica etc.
Ma, nonostante si fosse giunti a questa rinnovata consapevolezza, molti studiosi, principalmente le femministe del XX secolo, si opposero lungamente all’idea di introdurre il dato biologico nella riflessione sul  genere. Questo netto rifiuto nasceva dalla paura di sfociare in una forma di determinismo biologico: riconoscere la reale disuguaglianza naturale fra uomo e donna poteva condurre a  considerare lo status quo immutabile.
Brizendine[9] (2007: 22): «La biologia influenza potentemente la vita delle donne, ma non la imprigiona».
Intorno al 1960 – 70 gli studi biologici furono rivalutati grazie all’introduzione di una nuova corrente di pensiero, il cosiddetto fondamentalismo biologico: le differenze naturali fra uomo e donna fungono esclusivamente da base, sulle quali, successivamente, vengono costruiti significati culturali. Inoltre, l’arbitrarietà  insita in questo atto di costruzione serve a giustificare la grande varietà di posizioni che la donna assume di società in società.
Piccone Stella e Saraceno[10] (2006: 43):
«Il corpo viene cioè considerato come un tipo di attaccapanni sul quale vengono gettati o sovrapposti i diversi manufatti culturali, in particolare quelli della personalità e del comportamento».
In questo stesso periodo cresce non solo l’interesse rivolto dalla biologia all’indagine della nozione di genere, ma anche quello della psicologia: questa branca di studio, in linea con il suo statuto disciplinare, considera il genere al pari di un fenomeno intrapsichico, ignorando però le sue implicazioni sociali e politiche. Nel decennio decisivo, cioè quello compreso fra il 1960 e il 1970, sono state svolte numerose indagini, con l’ausilio di test e questionari, finalizzate a determinare l’effettivo ruolo rivestito dalla variabile sesso all’interno di un ampio ventaglio di comportamenti e caratteristiche psichiche, che spaziano dalle capacità sensoriali infantili alle reazioni in stati di stress, dalla memoria agli stili cognitivi etc.[11] Gli esiti di queste ricerche, i risultati emersi, non possono essere considerati molto significativi per alcune ragioni: in primo luogo, certe presunte differenze riscontrate fra uomo e donna non hanno peso a livello statistico, inoltre, alcuni studiosi hanno palesemente mostrato la tendenza ad inserire nelle proprie pubblicazioni solo una parte dei dati raccolti, omettendo il resto. In seconda istanza, il limite più grande di tali ricerche risiede soprattutto nella scarsa, o nulla, considerazione prestata al contesto sociale in cui la valenza differenziale fra i due sessi si manifesta. In realtà, non è possibile cogliere il senso di nessun fenomeno culturale, e quindi neanche del genere, se lo si estrapola dalla situazione socio – politica che ha contribuito in larga parte a plasmarlo.
Tutto ciò non conduce a negare l’importanza della riflessione di genere in ambito psicologico, ma, più semplicemente, dovrebbe spronarci ad analizzare la questione con spirito nuovo, rivolto a cogliere anche gli aspetti meno evidenti che sfuggono a qualsiasi forma di generalizzazione.
Partendo dall’analisi del dato genetico diremo che, nel mondo, non esistono due individui perfettamente identici. Ogni persona è un unicum, non solo in senso astratto e metafisico, ma anche a livello biologico, infatti, tutti portiamo impresso dentro di noi una sorta di marchio indelebile, formato da una precisa successione di informazioni, paragonabile ad un “codice della vita”, garante di individualità. Questo codice prende il nome di patrimonio genetico e, attraverso la sua continua interazione con l’ambiente, rende possibile la continuazione della specie[12]. Alla base di un così complesso ingranaggio troviamo i geni e l’insieme di tutti i geni di un essere vivente compone il suo genotipo, e la parte di questi che si rende visibile, manifesta, di questo è chiamata fenotipo. Ogni specie sessuata presenta un suo particolare numero cromosomico (nell’uomo questo è di 46), che deve essere sempre pari, poiché di ogni cromosoma[13] esistono due esemplari, cromosomi omologhi, cioè che portano la stessa sequenza di geni, provenienti uno dal padre ed uno dalla madre. Quanto detto è vero per tutte le cellule del corpo (somatiche), ma presenta una significativa eccezione per ciò che concerne i gameti. Infatti, mentre le cellule somatiche hanno un numero 2n di cromosomi, e sono quindi diploidi, i gameti hanno un numero n di cromosomi, e sono aploidi. Se i gameti fossero diploidi, ad ogni generazione, il numero di cromosomi raddoppierebbe, divenendo in breve tempo enorme. Così, per evitare che ciò avvenga, prima che si verifichi la vera e propria fecondazione, gli organi specializzati alla produzione di cellule germinali (gonadi), cioè i testicoli negli uomini e le ovaie nella donna, mettono in atto un processo di divisione cellulare, la meiosi. Dopo questa fase, durante i coito, avviene la fecondazione e si sviluppa un nuovo organismo, ovvero lo zigote.
È molto significativo che delle ventitré coppie di cromosomi da  cui si sviluppa lo zigote, solo una determina il sesso del nascituro:  la donna possiede due cromosomi sessuali uguali X e X, invece,           l’uomo ne presenta due diversi, X e Y. Dal momento che il   gamete maschile è aploide, porterà nel suo corredo, in modo assolutamente casuale, solo il cromosoma X, o solo quello Y. Nel primo caso si verificherà un incontro X-X, nascerà una femmina. Nel secondo caso, invece, l’unione X-Y genererà un maschio.
Tutto ciò dimostra chiaramente che la coppia di cromosomi deputati alla determinazione del sesso, pur veicolando informazioni molto importanti di cui ancora non si conosce con precisione la portata, non può certo bastare a giustificare l’enorme abisso che si crede divida uomo e donna.[14] Inoltre, sino alla settima settimana, il feto non mostra alcuna caratteristica che lo differenzi sessualmente, e anche quando lo sviluppo sessuale incomincia segue uno schema molto simile in ambedue i sessi. Essenzialmente, possiamo affermare che la presenza del cromosoma Y, contenente geni specifici per lo sviluppo dei testicoli, interviene a modificare la naturale tendenza della nostra gonade bipotenziale a svilupparsi in ovaie dopo la tredicesima settimana di gestazione.
Persino la natura non è priva di ambiguità: spesso, nei casi di ermafrodismo[15], il sesso del nascituro viene stabilito dai medici, e così capita che il soggetto si trovi intrappolato in una fisicità che non gli appartiene.
Per ovvie ragioni, merita un posto speciale, all’interno di questo ragionamento, la riflessione sull’omosessualità, cioè una condizione che sino ad oggi è stata, in alcuni casi, bollata con l’etichette, sicuramente infamanti per chi le sperimenta, di degenerazione, aberrazione, devianza, patologia e quant’altro. In altre circostanze, e forse gli esiti di questo atteggiamento sono ancora più nefasti, l’omosessuale è stato “tollerato” dalla società ma non certo compreso. Frequentemente, quando il diverso si presenta dinanzi ai nostri sguardi, in prossimità delle nostre convinzioni, spinti dalla paura insita nel pericolo di dover riconsiderare alcune opinioni ormai sedimentate nelle coscienze ed anche dal desiderio di dimostrare una certa apertura mentale più ostentata che realmente presente, ci sforziamo di camuffare quel fastidio, quel sottile turbamento, che l’alterità ci provoca e agiamo in modo da poterla reintegrare in un quadro di presunta normalità, ammesso che essa esista. In sostanza, comportandoci così, siamo ben lontani dal comprendere, rispettare ed apprezzare l’omosessuale, più semplicemente, ci limitiamo ad accettarlo sorvolando, negando quindi, uno degli aspetti più importanti del suo modo d’essere.
Da molti anni gli studiosi tentano di comprendere se l’omosessualità sia un fenomeno legato a fattori genetici, come una serie di ricerche suggerisce senza, però, condurre ancora a risultati conclusivi, o meno. Probabilmente, come nel caso dei geni deputati a stabilire l’altezza di un individuo, anche i geni che determinano la preferenza sessuale creano delle caratteristiche discrete collocate su di un continuum, i cui poli sono rappresentati dall’essere etero e dall’essere gay. Logicamente, per ovvie ragioni evolutive, al fine di procreare, oltre che a causa di condizionamenti sociali, la maggior parte delle persone è propensa verso il polo dell’eterosessualità. Ciò è vero nel caso in cui un individuo si trova vicino a questa estremità, se, invece, un soggetto è collocato in una zona del continuum prossima al polo opposto, allora, difficilmente potrà diventare etero. Inoltre, può esistere anche la possibilità che una persona occupi una posizione intermedia, si trovi per così dire a metà strada fra le due estremità e, in questa circostanza, interviene l’ambiente, con i suoi molteplici condizionamenti, a giocare un ruolo fondamentale.
Greer (2000: 35)[16]: «I ruoli sessuali standardizzati che fin dall’infanzia noi impariamo a sostenere non sono più naturali delle maschere dei travestiti».
Per quanto concerne le caratteristiche anatomiche, possiamo facilmente osservare che fra il corpo maschile e quello femminile esistono delle chiare differenzze. Certamente, l’aspetto più evidente riguarda la conformazione dell’apparato riproduttore: l’uomo possiede pene e testicoli, la donna ovaie e pube. Però, oltre alle differenze anatomiche riconducili all’apparato riproduttivo, ne esistono altre, lievi ma reali, fra il corpo maschile e quello femminile. A tal riguardo, un ruolo fondamentale è stato svolto da un processo evolutivo chiamato neotenia, che consente all’uomo di essere un animale capace di mantenere caratteristiche somatiche e comportamentali infantili anche durante l’età adulta[17]. Come notato da    Morris (2005: 16)[18]man: «mano che i sessi umani progredivano sul cammino dell’evoluzione verso una neotenia sempre maggiore, i maschi si comportavano sempre più da bambini, mostrando invece minori mutamenti fisici, mentre le femmine sviluppavano sempre più caratteristiche fisiche infantili, mostrando invece minori qualità mentali infantili.»
Tutte le femmine di mammifero, eccetto la donna, presentano l’estro, cioè in particolari segnali, ad esempi odori, durante i tre giorni, a cavallo fra un ciclo mestruale e l’altro, in cui sono fertili, e quindi  potenzialmente fecondabili. La donna, invece, presenta una sorta di “estro nascosto”, ma, soprattutto, è soggetta a cicliche  ovulazioni continue, non limitate alla sola stagione degli amori, che le consentono di essere fertile durante tutto l’anno. Questa situazione ha influito enormemente sulla nascita dei legami di coppia: il maschio, non potendo stabilire quale fosse il momento giusto per accoppiarsi a buon esito con una femmina, ha avuto maggiore successo riproduttivo istaurando con quest’ultima dei legami prolungati nel tempo, per riuscire, eventualmente in seguito a più tentativi, a fecondarla. Quindi, l’uomo, fondamentalmente promiscuo[19], è stato indirizzato, dalla selezione naturale, verso un modello di organizzazione sociale tendente alla monogamia, o comunque alla formazione di legami stabili nel tempo fra maschio e femmina.
Le differenze fisiche fra i due sessi sono stati accentuati dall’azione dei fattori culturali, che, di tempo in tempo e di società in società, hanno elaborato un determinato standard estetico per i due sessi. Ad esempio, esistono alcuni gruppi che prediligono la donna “formosa”, ed altri che apprezzano una silhouette snella e sottile. In genere,  i gusti e le scelte legate al corpo femminile rimandano, talvolta inconsapevolmente ed implicitamente, alla sfera erotica: le labbra rosse e carnose, la chioma fluente, i fianchi larghi, i glutei rotondi  etc. fungono tutti da richiami sessuali e, in un certo senso, colmano il vuoto lasciato dalla perdita dell’estro.
Trattando il sesso gonadico si può dire che Il testosterone è un ormone del gruppo androgeno, secreto principalmente dai testicoli e in quantità ridotte dalle ghiandole surrenali, quindi, le donne ne producono molto meno rispetto agli uomini. Proprio nell’uomo, il testosterone è deputato allo sviluppo degli organi sessuali, inoltre, agisce mascolinizzando il corpo e, quindi, determinando i caratteri sessuali secondari (barba, muscolatura, timbro della voce etc.) Nell’adulto, i livelli di testosterone hanno anche un ruolo fondamentale per ciò che concerne la fertilità, agendo sulla maturazione, sulla salute e sulla vitalità degli spermatozoi.
Nella donna, l’ipofisi regola il ciclo mestruale[20] attraverso un gruppo di ormoni detti gonadotropine. Questi ormoni inducono nell’ovaia la secrezione di altri ormoni che agiscono sulla mucosa dell’utero: l’estrogeno aiuta la mucosa uterina a prepararsi per ricevere la  cellula uovo e il progesterone mantiene le condizioni della  mucosa uterina adatte per iniziare la gravidanza.
Cerebralmente, molti studiosi hanno, specie negli ultimi anni, ipotizzato che vi fossero delle differenze fra uomo e donna. La principale differenza fra il cervello maschile e quello femminile risiederebbe nel fatto che il primo è più propenso alla sistematizzazione ed il secondo all’empatia.
Baron-Cohen (2004: 5)[21]:
«La sistematizzazione è la tendenza ad analizzare, vagliare  ed elaborare sistemi […] Vi sono sistemi di ogni tipo: da uno stagno ad un veicolo, da una pianta ad un catalogo di biblioteca, da una composizione musicale ad una palla da cricket, ad   un’unità militare. Tutti funzionano in base a dati di  ingresso, o input, e producono dati di uscita, o output,  utilizzando regole correlazionali del tipo “se … allora”.»
Baron-Cohen (2004: 4)[22]:
«L’empatia è la capacità di riconoscere i pensieri e le emozioni degli altri e di reagire con sentimenti consoni.»
Al fine di avvalorare la tesi di quanti sostengono la presenza di una disuguaglianza tra quoziente di empatia (QE) e quoziente di sistematizzazione (QS) nei due sessi sono state condotte molte indagini. Si è visto che fin da bambini, cioè nel periodo in  cui i comportamenti non risentono ancora molto del carattere emulativo, i maschietti e le femminucce, non solo scelgono di giocare con i membri del loro sesso, ma addirittura, la stessa  attività ludica assume differenti sfumature: i bambini prediligono giochi di strategia e tecnica, nei quali, sovente, entrano in competizione, manifestando atteggiamenti aggressivi per primeggiare sui coetanei. Le bambine, invece, preferiscono  giochi in cui è necessario un alto grado di cooperazione reciproca, ed instaurano, precocemente, rapporti di amicizia, basati sulla solidarietà e la comunicazione. Queste caratteristiche, apparse durante l’infanzia, maturano e si consolidano in età adulta, manifestandosi sotto svariate vesti, dagli studi intrapresi ai gusti musicali, dalla professione esercitata al modo di rapportarsi  nei legami etc..
È stato ipotizzato che il grado di QS e di QE dipenda pure dall’azione   del testosterone sull’emisfero destro del cervello e, più in generale, su tutta la parte destra del corpo (per esempio i piedi, le mani, i testicoli e i seni). Secondo la teoria della “lateralità”, il testosterone, prodotto in maggior quantitativi nell’uomo, potenzierebbe le capacità dell’emisfero celebrale destro, connesso con l’abilità visivo – spaziale, e da ciò deriverebbe la propensione maschile alla sistematizzazione. Invece, le donne, nelle quali si riduce la produzione di testosterone, eserciterebbero principalmente l’emisfero celebrale sinistro, deputato alla comprensione e all’emissione del linguaggio, e questo giustificherebbe l’attitudine femminile alla comunicazione, elemento imprescindibile dall’empatia.
Spostandoci adesso sul versante sociale, è opportuno ricordare che, nel corso della storia, molti studiosi si sono interrogati per trovare un’ipotesi plausibile in grado di spiegare coerentemente la diffusione, a livello pressoché universale, di un modello sociale fondato sulla supremazia maschile.
Marx ed Engels identificarono l’inizio della segregazione femminile con il momento in cui i gruppi umani furono in grado di produrre plusvalore: l’eccedenza portò alla nascita delle prime forme di scambio, da cui, in seguito, si originò il commercio, e, parallelamente, il diffondersi di una forte competizione, con conseguente lotta, per la difesa degli stessi beni. In questa nuova realtà, le donne, abili produttrici ma deboli guerriere, si trovarono in una posizione di inferiorità e dipendenza nei confronti degli uomini.
Secondo gli studiosi che hanno elaborato la cosiddetta teoria   post-freudiana, il lungo ed intenso rapporto che la madre istaura con i figli determina esiti diversi negli uomini e nelle donne: le bambine si identificano profondamente con la madre, ne imitano il ruolo, non riuscendo così a costruire uno spiccato senso di individualità e autonomia. Al contrario, i bambini, spinti dal bisogno di definire il loro diverso ruolo sessuale, finiscono per rifiutare, o addirittura svalutare, tutto ciò che sembra associato alla madre e, quindi, alla femminilità in genere.
Gli antropologi, in special modo gli strutturalisti, hanno sostenuto che la donna, a causa di varie circostanze, come ad esempio il parto o il ciclo mestruale, viene associata nel pensiero comune alla natura, mentre l’uomo, ritenuto più propenso alla socializzazione, viene messo in relazione con la cultura. Dal momento che nella dicotomia natura/cultura, generalmente, il secondo termine viene inteso in senso positivo, come un elemento più importante rispetto al primo, anche la donna viene considerata una creatura di minor valore dell’uomo.
Altre teorie, come ad esempio quella dei bio-comportamentisti, attribuiscono le ragioni della sottomissione femminile ad una, per così dire, mancanza di caratteristiche, quali la forza fisica o la libertà dall’allevamento della prole, che, invece, avrebbero favorito il dominio maschile.
Tutte queste ipotesi, prese singolarmente, si dimostrano affascinanti e se, poi, provassimo a fonderle insieme in un’unica teoria, non solo ci accorgeremmo che l’una non esclude l’altra, ma, addirittura, diverrebbe chiaro che non uno ma bensì tutti questi fattori insieme, hanno concorso a determinare l’odierna situazione femminile.
Il genere, al pari di qualsiasi altro prodotto culturale, è apparso in un particolare momento della storia umana, e ciò implica necessariamente la presenza di un prima e di un dopo. Il dopo è noto a tutti: istituzione della parentela, divisione sessuale del lavoro, forma accettata di unione, tabù dell’incesto e via dicendo. Pochi si interrogano sul prima…
Secondo Cucchiari[23], un modello di società pre-genere può essere ricostruito solo attraverso i pochi documenti storici in nostro possesso, ricavati dai resti dell’arte figurativa paleolitica, e mediante molte congetture e ipotesi.
Il Paleolitico superiore è un arco di tempo molto ampio, abbraccia circa 25.000 anni, e le rappresentazioni artistiche di questo periodo registrano importanti e improvvisi mutamenti, sintomo che anche l’ideologia subì una trasformazione: i soggetti artistici, presenti su piccoli oggetti o dipinti e scolpiti sulle pareti, rimandano tutti a simboli maschili o femminili. In un primo momento, i due tipi di segni sono presenti in quantità pressoché uguale, dopo si incrementa il numero di quelli femminili e, in fine, la situazione si stabilizza con una preponderanza di simboli maschili.
Il fenomeno descritto delinea il processo che portò all’introduzione della categoria di genere nella società. Precedentemente, esisteva una società pre-genere, formata da diverse orde, ognuna di esse organizzata in due gruppi, cioè  i custodi dell’infanzia e i foraggieri. I primi accudivano i bambini presenti nell’orda, mentre i secondi procuravano il cibo per l’orda. In questa società democratica nessun ruolo era prestabilito o ascritto e le due categorie[24] erano soggette a continuo mutamento. I bambini rivestivano un ruolo molto importante: in primo luogo fungevano da collante fra i custodi dell’infanzia e i foraggieri, ed in secondo luogo, attraverso il loro scambio, effettuato solo dai foraggieri, si istauravano i rapporti con le altre orde. Dopo la nascita del concetto di genere, dallo scambio dei bambini si passerà a quello delle spose[25]. Prima, quindi, la sessualità era marginale all’organizzazione della società, infatti, non esistevano restrizioni a riguardo e, soprattutto, questa non giocava alcun ruolo nella determinazione del sé. Poi, però, le cose cambiarono, e precisamente quando ci si rese conto che solo una parte del gruppo, le proto-donne, possedeva la capacità di procreare. Nel tentativo di risolvere la crisi prodotta da tale consapevolezza, le proto-donne e la loro prerogativa, vennero momentaneamente ammantate da un alone di sacralità. Dal momento che il sacro è contagioso quanto pericoloso, l’intera categoria dei custodi dell’infanzia, non solo venne associata esclusivamente alle donne, ma queste furono anche isolate dal resto della società. In questo modo, l’orda cominciò ad essere divisa in due parti, e gli organi associati alla riproduzione, genitali e seno, divennero emblema di alterità. A questo punto non restava ormai più nulla né della visione unitaria, né della società democratica, e la sacralità che circondava le proto-donne non aveva più alcuna ragione di esisterne, così si decise di ritornare nuovamente al profano.
Subito dopo la sua nascita, la nozione di genere innescò tutta una serie di processi a catena che la portarono ad assumere enormi significati, trasformandola in principio ordinatore della società ed elemento caratterizzante della personalità.
Mead[26] (2003: 301):
«Caratteri che si presentano in membri di ambedue i sessi sono assegnati specificamente ad un sesso e considerati estranei all’altro sesso. La storia della definizione sociale delle differenze di sesso è piena di simili arbitri, commessi sul piano intellettuale e artistico. A causa di una presunta concordanza fra il sesso fisiologico e certe qualità emotive, non riusciamo a volte a renderci conto che arbitri del genere vengono commessi anche sul piano, appunto, delle emozioni e dei sentimenti».
L’esito immediato di questo processo si manifestò nell’istituzione dei sistemi di parentela: questi, la cui enorme variabilità è dimostrata dal paradigma di possibilità realizzate dalle diverse culture, attraverso la prescrizione di precisi doveri e diritti, si pongono come fine ultimo,  in maniera più o meno esplicita, di organizzare i rapporti interni al gruppo e quelli esterni tra i differenti gruppi.
In sostanza, la parentela getta le basi della socialità umana ed ogni altra forma di istituzione, arbitrariamente costruita a partire dalla selezione di un criterio sociale, etnico, politico, religioso etc., viene necessariamente dopo, così come la stessa creazione del concetto di parentela deve obbligatoriamente essere successiva all’elaborazione della categoria di genere, cioè al riconoscimento che il mondo, il mondo culturale, si articola in due metà, una maschile ed una femminile..
Inoltre, il passaggio dall’endogamia[27] all’esogamia[28], fu un altro momento cruciale: l’endogamia ha creato sistemi di parentela sempre più ampi e complessi, stabilendo e lentamente cementando alleanze fra diverse comunità, inoltre, l’attraversamento di questa importante tappa ha conferito all’uomo sempre più potere nei riguardi della donna.
Tirando le somme e spostando la nostra riflessione nella nostra società, ovvero una società chiamata complessa, si può notare che il ruolo assegnato alle donne dalla civiltà è quanto mai camaleontico e ambiguo, ma sempre e comunque assoggettato a quello maschile. Tutte le battaglie combattute da pochi illuminati, e fra questi spiccano a buon diritto le femministe che, se pure, a mio avviso, con strumenti e modi talvolta inappropriati, hanno innegabilmente segnato una tappa fondamentale della storia complessiva dell’umanità nel superamento di molti luoghi comuni, non hanno mai condotto ad un reale capovolgimento della situazione e, forse, neppure ad una sua seria riconsiderazione.
Piccone Stella e Saraceno[29] (2006: 23 – 24):
«Il tragitto del femminismo postmoderno giunge, dopo un lungo sforzo analitico, a far proprio un punto di vista molto simile a quello che la sociologia e l’antropologia – incluse quelle più direttamente ispirate ad un approccio femminista, o di genere – hanno adottato da tempo: l’accettazione della complessità sociale, dell’esistenza di soggetti multipli, della pluralità dei riferimenti di valore. Curiosa separazione dei percorsi, che trae origine dalla vivace vocazione interdisciplinare del pensiero femminista e dall’incompiutezza pratica di tale vocazione, per la quale sono lasciate talvolta a margine le acquisizioni già disponibili. Quasi che tra le stesse teoriche e ricercatrici femministe vi fosse non tanto una, legittima, divisione del lavoro disciplinare, quanto un passaggio del testimone in qualche misura immemore delle origini e del percorso compiuto».
Nonostante nelle società moderne la vita associativa non sia più regolamentata dall’istituto della parentela ed esistano precise istituzioni finalizzate al controllo della sfera sociale, in un certo senso, è sempre il nucleo familiare alla base di tutto .
Piccone Stella e Saraceno[30] (2006: 203):
«la famiglia è il perno delle ineguaglianze nella società perché le ineguaglianze all’interno della famiglia (i lavori domestici non retribuiti e la cura dei bambini, per esempio) generano necessariamente ineguaglianze di genere (per esempio, nella partecipazione al mercato del lavoro). [...] la famiglia ha un ruolo cruciale nel socializzare (e quindi nel produrre) sia le ineguaglianze di genere sia il senso della giustizia».
La segregazione sessuale rimane comunque chiaramente percepibile, in special modo da tutto quell’universo femminile che, quotidianamente, sperimenta direttamente, sulla propria pelle, il pesante fardello di nascere, per così dire, all’interno della “metà sbagliata e imperfetta dell’umanità”, la stessa metà associata, nel pensiero comune, ad un’idea di intrinseca fragilità, debolezza e, sotto certi punti di vista, inaffidabilità. Si tratta di una condizione avvertita di continuo da quelle donne che devono farsi faticosamente strada, in talune circostanza persino spintonando, per giungere in fine, nei casi più fortunati, a raggiungere gli stessi traguardi assegnati agli uomini senza che questi siano costretti al medesimo dispendio di energie.
Le disuguaglianze di genere nella partecipazione al mondo del lavoro si manifestano sotto quattro punti di vista:
1)   Ingresso nella forza lavoro.
Come abbiamo già avuto modo di dire, sono in minoranza, rispetto agli uomini, le donne che hanno un lavoro retribuito.
2)   Permanenza nella forza lavoro.
Nel caso in cui le donne partecipino alla forza lavoro, spesso, tendono a rimanervi per un periodo più breve rispetto agli uomini. Ciò si verifica perché il comportamento lavorativo femminile è fortemente condizionato dall’esperienza matrimoniale e genitoriale. Le indagini hanno fatto emergere una realtà molto particolare, sicuramente, degna di essere presa in considerazione: per le donne, l’uscita dal primo periodo lavorativo assume un ruolo cruciale nel definire la carriera futura e rappresenta un vero e proprio spartiacque. Da un lato troviamo quella categoria femminile che entra nel mondo del lavoro e poi, dopo un certo periodo di permanenza, si ritira per dedicarsi alla cura della famiglia e della casa, dall’altro abbiamo quelle donne, spesso nubili e ben istruite, che proseguono la loro esperienza lavorativa, frequentemente, trovando una nuova occupazione.
Tirando le somme, diremo che, realmente, esistono delle differenze naturali, biologiche, fra i due sessi. Tale consapevolezza potrebbe gettare nello sconforto tutte quelle donne che, nel riconoscimento di questa diversità, identificano una sorta di legittimazione al loro stato di sottomissione, o, peggio ancora, potrebbe accrescere oltre ogni misura l’ego di quegli uomini convinti di una propria intrinseca superiorità. Ma, come precedentemente ho affermato, il riconoscimento di una reale, tangibile, disuguaglianza naturale a carattere sessuale, cioè una fase ineludibile del dibattito, rappresenta solo un punto di partenza per ulteriori riflessioni, in un certo senso può essere considerato la punta di un iceberg.
In primo luogo occorre sottolineare che le caratteristiche biologiche distintive dei due sessi sono, da un punto di vista puramente quantitativo, statistico, in numero esiguo o, almeno, non sufficiente per ragionare, come invece molti sembrano fare, nei termini di un’umanità scissa in due parti ben distinte. In secondo luogo dal momento che non sempre i fenomeni presentano confini e fisionomie nette, e neppure la natura è risparmiata da questo stato di cose, capita, con molta più frequenza di quanto si pensi, che in uno stesso individuo si mischino caratteristiche appartenenti a entrambi i sessi. Anche l’accettazione di questa verità, cioè che la natura non è priva di ambiguità, insieme alla precedente, relativa alla diversità sessuale, si dimostra una tappa fondamentale per lo sviluppo del dibattito e l’articolarsi di una nuova ottica attraverso cui osservare la situazione. In terzo ed ultimo luogo ammettere che uomo e donna non siano esattamente due “animali” identici non deve necessariamente spingerci a cercare un migliore o un superiore, peraltro inesistente.
Come è risaputo, specialmente da tutti coloro i quali hanno una certa familiarità con le questioni antropologiche,  il diverso[31], nonostante in alcune circostanze possa apparire pericoloso alle nostre coscienze poiché incrina le sicurezze e le convinzioni radicate in esse, in realtà, non andrebbe mai giudicato attraverso l’applicazione dei nostri metri di giudizio, delle nostre categorie, anzi, già lo stesso termine “giudicare” è inappropriato a priori. L’alterità va sicuramente indagata e conosciuta approfonditamente, ma tale procedura non deve essere finalizzata al tentativo di modificarla, omologarla e, in ultima istanza, sottometterla, bensì a quello di sfruttarla come fonte di arricchimento, in grado di rinnovarci come persone, grazie proprio alla scoperta di pluralità di forme e punti di vista che solo l’incontro con l’altro può offrirci.
Proprio le disuguaglianze rendono l’uomo e la donna complementari, due immagini speculari e, quindi, bisognosi l’uno dell’altro per raggiungere una forma di completezza.
Inoltre, non è superfluo ricordare ancora una volta come natura e cultura siano strettamente connesse e interdipendenti. Qualsiasi fenomeno, e l’uomo in particolar modo, si presenta come il campo di azione, scontro e mediazione, fra le due forze, spesso contrapposte, della natura e della cultura, infatti, la prima pone le basi su cui successivamente agisce la seconda, in breve, la prima propone e la seconda dispone. L’intervento più significativo operato dalla cultura all’interno dell’ambito sessuale si concretizza, primariamente, nell’enfatizzazione del fattore biologico: il maschio e la femmina vengono scelti come soggetti sui quali si costruisce un’ampia armatura concettuale capace, in fine, di restituire due identità in tutto e per tutto strutturate secondo dei precisi schemi preconfezionati dalla società.
A chiusura del mio articolo vorrei dire che, a mio personale avviso, nonostante nella maggioranza dei casi la donna sia stata costretta ad accettare la prepotenza maschile poiché non possedeva le necessarie armi per tutelarsi da questa, in ultima istanza, come sempre avviene in tutte le “controversie”, il giusto non si trovi solo da una parte e, quindi, anche la donna abbia la sua parte di responsabilità. Qualsiasi forma di tirannide, per esistere, necessita di un tiranno, ma anche, nello stesso tempo, di un gruppo che si lasci sottomettere. Quindi, ciò che mi permetto di “rimproverare” alle donne, in un certo senso da donna a donna, è proprio il fatto che, a volte, non abbiano trovato la determinazione di fare sentire la propria voce e non si siano ribellate. Mi rendo perfettamente conto che qualsiasi progetto “rivoluzionario” femminile, in passato, e mi riferisco ad un passato piuttosto recente, si sarebbe dimostrato quasi del tutto inattuabile da un punto di vista pratico[32], però, i tempi sono cambiati e bisogna prenderne atto. Oggi, sfortunatamente non ancora in tutte le parti del globo[33], la donna, la donna della mia generazione, ha tutte le carte in regola (indipendenza economica, istruzione, partecipazione politica etc.) per dialogare alla pari con l’uomo e, fatto determinante, mi sembra che quest’ultimo si stia mostrando, non solo pronto ad accettare la sfida, ma che addirittura la stia chiaramente cercando. Infatti, dopo aver speso tutte queste parole per denunciare la triste condizione femminile, sicuramente una realtà innegabile, vorrei soffermarmi un attimo per sottolineare che anche quella maschile, ultimamente, non sia sempre semplice: l’uomo moderno, frequentemente, sperimenta una sorta di crisi d’identità, poiché si trova quotidianamente a dover scegliere fra un modello tradizionale, cioè quello di vir nell’accezione latina del termine, ed uno nuovo, imposto da quelle donne che, a mio avviso erroneamente, credono di potersi fare largo nella vita “mascolinizzandosi”, rifiutando, negando, la propria femminilità, ma così facendo, in un certo senso, finendo per mutilarsi da sole. Il soggetto maschile, in questo modo, non sa mai se sia più giusto porsi come figura solida, forte e di riferimento, oppure se manifestare apertamente le proprie fragilità e tenerezze per risultare affine, a livello psicologico ed emotivo, all’universo femminile o, almeno, al suo stereotipo. Sostanzialmente, in tutte queste congetture che finiscono per falsificare l’io si trova un errore di fondo: data ormai per scontata l’esistenza di caratteristiche psico-fisiche propriamente femminili, ed altre tipicamente maschili, che comunque in entrambi i casi dovrebbero essere utilizzate come potenzialità, torno a ripetere che l’unica dimensione veramente rivendicabile sia quella individuale, e che qualsiasi procedura di omologazione, incasellamento, semplificazione e generalizzazione si dimostra artificiosa e, soprattutto, sterile. Non esiste un uomo-tipo o una donna-tip e, di volta in volta, il connubio fra natura e cultura plasma un io, unico rispetto ai membri del sesso opposto quanto a quelli del proprio.


NOTE:
[1] Occorre ricordare che non tutti gli esseri viventi sono distinti in due sessi, poiché ne esistono alcuni asessuati, ed altri che possono assumere le caratteristiche di ambedue i sessi.
[2] Burr Vivien, 2003, Psicologia delle differenze di genere, Bologna, il Mulino.
[3] Piccone Stella Simonetta – Saraceno Chiara, 2006, Genere. La costruzione sociale del femminile e del maschile, Bologna, il Mulino. Pag. 7.
[4] Burr Vivien, op. cit.
[5] Burr Vivien, op. cit.
[6] Héritier Françoise, 2002, Maschile e femminile. Il pensiero della differenza, Roma,
Economica Laterza.
[7] Per citarne solo alcuni: Simonetta Piccone Stella e Chiara Saraceno.
[8] Piccone Stella Simonetta – Saraceno Chiara, 2006, Genere. La costruzione sociale del femminile e del maschile, Bologna, il Mulino.
[9] Brizendine Louann, 2007, Il cervello delle donne, Milano, Rizzoli.
[10] Piccone Stella Simonetta – Saraceno Chiara, op. cit.
[11] Questi dati sono stati estrapolati da: Burr Vivien, 2003, Psicologia delle differenze di genere, Bologna, il Mulino.
[12] Specie: gruppo di organismi tra di loro simili in tutti i principali caratteri, capaci di fecondarsi liberamente producendo prole fertile.
[13] Cromosoma: sottile filamento portatore di caratteri ereditari, localizzato nel nucleo delle cellule eucariote (nelle cellule procariote si trova un unico cromosoma circolare). Un cromosoma è formato da DNA e proteine.
[14] Wilson con la sua Sociobiologia, e poi la teoria del “Gene egoista”, erano convinti del contrario.
[15] L’ermafrodito è un individuo che presenta i caratteri di entrambi i sessi.
[16] Greer Germane, 2000, L’eunuco femmina, Milano, Mondadori.
[17] Durante l’età adulta l’attività ludica viene variamente chiamata sport, arte etc.
[18] Morris Desmond, 2005, L’animale donna, Milano, Mondadori.
[19] L’uomo, in quanto Primate è tendenzialmente promiscuo. Ciò è dimostrato sia dalla presenza della poligamia istituzionalizzata in molte società, ed anche dal fatto che nelle società in cui si è scelta la monogamia, essa è comunque regolata da un corpus di leggi, quindi, non si tratta di una propensione naturale.
[20] Il ciclo mestruale, della durata di circa ventotto giorni, è l’insieme delle trasformazioni che la mucosa dell’utero subisce; a metà del ciclo, cioè dopo dieci – quattordici giorni dall’inizio della mestruazione, avviene la liberazione di una cellula uovo dall’ovaia. Successivamente, questa cellula sopravvive solo da uno a tre giorni e, se non è fecondata, viene espulsa, insieme a all’endometrio dalla vagina.
[21] Baron-Cohen Simon, 2004, Questione di cervello. La differenza essenziale tra uomini e donne, Mondadori, Milano.
[22] Baron-Cohen Simon, op. cit.
[23] Cucchiari Salvatore, Le origini della gerarchia di genere.
[24] Da non confondere con la divisione in cacciatori e raccoglitori, necessariamente posteriore all’introduzione del genere, perché collegata alla ripartizione sessuale dei compiti.
[25] Inizialmente delle spose-bambine e, poco tempo dopo, di quelle adulte.
[26] Mead Margaret, 2003, Sesso e temperamento, Milano, Nuova Stampa Mondadori.
[27] Endogamia: matrimonio in seno ad un gruppo sociale definito.
[28] Esogamia: matrimonio al di fuori di un gruppo sociale definito.
[29]Piccone Stella Simonetta – Saraceno Chiara, 2006, Genere. la costruzione sociale del femminile e del maschile, Bologna, il Mulino.
[30] Piccone Stella Simonetta – Saraceno Chiara, op. cit..
[31] Ancor più, come in questo caso, quando la diversità si colloca all’interno del binomio identico/opposto.
[32] La sudditanza psicologica è solo una, forse la più evidente, forma di supremazia maschile, a cui se ne sommano spesso molte altre, come ad esempio quella economica.
[33] Dovrebbe venire principalmente da quella parte di donne più fortunate il desiderio di supportare le altre in un possibile riscatto, se davvero esiste quella forma di solidarietà femminile di cui tanto si parla.

Tratto dal sito:
www.empatiadonne.it

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