sabato 30 novembre 2013

da IL MONDO SILLABA PER SILLABA di Ana Blandiana

UN VIAGGIO ALL'INTERNO DELL'ANIMA...

da IL MONDO SILLABA PER SILLABA di Ana Blandiana

La Sagrada Familia

Sapevamo che era una chiesa incompiuta. Sapevamo che era un capolavoro. Ne conoscevamo il profilo incerto visto su illustrazioni e nei manuali d’arte, perennemente avvolto in qualcosa di misterioso, in qualcosa di non detto fino in fondo, e percorremmo per interi chilometri i viali delimitati da bianchi platani e diafani aranci, lasciandoci guidare dal suo profilo inconfondibile, tracciato, di sicuro con una certa negligenza, sul cielo. Una volta arrivati, finalmente, scoprimmo che si elevava sopra una sorta di flora da sagra paesana – bancarelle ricolme di figurine di gesso, di carta stagnola, di cuori di celluloide. Serpeggiando fra quel labirintico intrico, riuscimmo, disorientati, ad arrivare fin davanti alla facciata posteriore del monumento: due torri di forma incerta, leggermente tondeggianti, disomogeneamente geometriche, simili a due pannocchie di granturco non ancora mature in modo uniforme, poste una accanto all’altra quasi a casaccio, ricoperte da grandi lettere in pietra. Ci girammo intorno cauti, senza voler ancora cercare di capire, e arrivammo al negozietto di souvenir cui si accedeva dopo aver pagato il biglietto. Scendemmo alcuni gradini, verso una porta provvisoria sul fianco di una delle torri. Un piccolo museo con i progetti, incompleti, della cattedrale e con le fotografie del funerale del suo artefice, celebrato nel 1962. Salimmo di nuovo questa volta verso la chiesa, ma arrivammo solo a un ampio spiazzo vuoto, in cui erano accatastati mucchi di pietre e tralicci di gru. A sinistra, le due torri, viste questa volta da dietro; lontano, sulla destra, altre due torri unite da un muro cieco che poteva sembrare, se osservato dall’esterno, la facciata principale; mentre in mezzo c’era il grande vuoto disordinato del cantiere moderno. La cattedrale non esisteva. In un angolo, quattro immense lumache di pietra, straordinariamente belle e insolite in quel panorama messo a soqquadro, con le antenne tranciate a metà a causa di un incidente o forse perché voluto intenzionalmente dall’artista. Passammo oltre, superando quel solitario paravento in pietra. Sapevamo che era l’unico elemento della costruzione portato a termine da Gaudí ancora in vita. E, ovviamente, non avevamo mai visto nulla di simile.
La prima impressione fu quella di trovarci di fronte all’entrata di una grotta. La pietra sembrava lavorata dall’acqua e dal vento. Sembrava un monumento dedicato alla natura, più strano forse di altri, ma, dato che le bizzarrie della natura sono infinite, ci sconcertava, senza che ne fossimo sorpresi. D’un tratto, però, in quegli sgocciolii e fiotti di roccia fatti fluire dal caso, s’indovinava una lettera, poi una parola. Ci pareva inverosimile, nulla era più stridente di una parola in quell’accanimento minerale, ma l’occhio scopriva molte altre lettere scolpite nella pietra, o aggiunte dalla pietra sulla pietra, lettere immense, alte quanto una persona probabilmente, che componevano tutt’intorno alle torri parole come sanctus, sanctus, sanctus e, ancor più inconsideratamente, dall’alto in basso, osanna, osanna ed excelsis, excelsis. Sopra c’era scritto vita, veritas, davanti alle statue c’erano i nomi dei personaggi rappresentati, e il tutto acquisiva qualcosa di assurdo perché, così, si scopriva, tra le rocciose convulsioni, statue e sculture – imponenti gruppi di tacchini con le code gonfie, immensi gruppi di alteri pavoni dall’atteggiamento sprezzante. Più in alto, sulle cime aguzze delle torri, enormi frutti, verdure, cereali, ananas, foglie, erba, palme, eucalipti. C’era, in tutto quel caotico ammasso di forme e di rappresentazioni, un’estrema libertà che non poteva che sfociare dalla forza, una forza estrema che poteva solo sfociare dall’amore. Gaudí non rispetta nessuna delle leggi di edificazione di una chiesa, perché egli si attiene sempre alla grande legge da cui esse sono sorte. Ancora una terribile conferma del fatto che l’unico assioma dell’arte è “ama e fa’ ciò che vuoi”.
E però, quanto era strana la capacità di quest’uomo di credere nel tempo! In un mondo in cui ciò che si edificava era fatto perché potesse durare nel tempo qualche decina d’anni, egli cominciò la costruzione, scaglionata in centinaia d’anni, di un monumento buono per durare nei millenni. In un’epoca in cui si perdeva addirittura la fede nella parola, egli combinava la parola con la pietra, dando vita a una nuova arte, piena della barbara forza della fede nella materia e nell’espressione. Si erano inventati la locomotiva e l’aereo, si era conclusa la prima guerra mondiale, e in tutto quel tempo in cui si preannunciava con certezza la spinta in avanti della nostra civiltà, la sua velocità e la sua caducità, questo anziano signore, travolto da un tramvai all’età di settantaquattro anni, rifletté e si comportò come gli edificatori delle cattedrali gotiche; si stava appressando l’epoca egemonica di Hitler, le prigioni di mezzo mondo erano più gremite che mai, e questo vegliardo smarrito nella sua Penisola iberica aveva ancora fiducia nel destino dell’umanità, giacché nel momento stesso in cui poneva inizio a una costruzione contava che le generazioni future gliela portassero a termine.
Ci allontanammo dalla Sagrada Familia scossi e colmi di una felicità ambigua, fieri di aver scoperto non che il nostro mondo fosse migliore o più bello di quanto sapessimo, ma che esistesse qualcuno che credeva che così fosse.

(f.g)

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