sabato 29 ottobre 2016

FAFOU di Sabine Sicaud (1913-1928)

 FAFOU di Sabine Sicaud (1913-1928)



    Chimera, dromedario, canguro? 
                 No. Soltanto quest’ombra cinese,
Fafou, sulla finestra, in controluce, Fafou,
tutta sola e pensosa... una fucsia si pavoneggia
lo schermo verde dietro lei, e sento, a due passi,
degli uccelli che l’hanno scorta e si sgolano.


Fafou si atteggia a statua. Un occhio stanco 
sembra schiudersi nel profilo dove brilla, 
tuttavia, qualcosa, un non so che d’acuto...
Nei dintorni, si nasconde un nido d’uccelletti nudi
per i quali la madre trema – Fafou sogna.

Un piccolo petalo rosso, che si allunga, 
segna con una riga il suo sottile muso... uno sbadiglio.
Poi un altro... Fafou dormiva Innocentemente.
Fafou dormiva, vi dico! Ella si stiracchia, 
                 la coda raccolta, 
poi a candela; il dorso convesso, poi concavo. Ma il peggio,
è quel fingere di non vedere che si sgola
        la madre-uccello sul tasso così vicino...

        Una zampa a fucile, eccola seduta
si spazzola, candida e il suo manto splende 
di un bel satin di vecchia signora dove si avvoltola
                         la luce della sera.
Una signora? O qualche diavolaccio in abito nero?

Fafou, non amo questi occhi d’un altro mondo,
questi occhi di fantasma... poc’anzi mezze lune,
                 ora lune rotonde,
         perché questi buchi fosforescenti
         in questa faccia oscura? Sulla tela
che a sua volta imbrunisce – la tela del giardino
dove i ciondoli delle fucsie sono stelle
                 il vestito di un vivo nero si spegne...

Più non è che una stesura d’inchiostro o di fuliggine,
        un pelame angoscioso! Dov’hai scovato
questo nero dell’insegna di gatto nero lavato dalla pioggia?

Gatto nero o nero leone? Pipistrello,
civetta, cosa? Non saprei. Sulla finestra,
una testa dove l’orecchio piatto scompare...
Lucertola, biscia o tartaruga? Ah! Così vicino,
l’uccello stesso non sa chi temere, quale essere
fantastico e cangiante striscerà questa notte
nel giardino dal nero mistero di caverna!

         Nero, ancora nero... un punto che brilla,
due punti... due lucciole, verdi lanterne...
                 Fafou, non voglio!
Donde arrivi, demone, da quale sabba,
          da quale grotta di strega,
quando, ad un tratto, i tuoi occhi mi spaventano?

           Questa è l’ora delle grondaie,
della giungla! Sfiorando, con dolce calpestio,
una vendemmia immaginaria, sulla pietra,
quale arma stai arrotando? Non voglio, Fafou!
Vieni sotto la lampada! Un nastro rosa al collo,
un bel nastro di ragazza, di un pallido rosa,
io ti voglio, come in un angolo di cartolina,

          una gattina nera, tutto qui...








Note di Viviane Ciampi

Capita spesso che le poesie dei cosiddetti “bambini-prodigio” risultino insopportabili per sdolcinature e artificiosità, quando non sono addirittura “aggiustate” dai genitori o da qualche editore in vena di creare un caso.

Ma come sempre esistono le eccezioni e una di queste si chiama Sabine Sicaud, una bambina dal destino insolito, vissuta molto tempo fa in una cittadina del Sud Ovest della Francia. Aveva appena undici anni, la piccola, quando si mise in luce in un concorso di poesia della sua regione e fa impressione trovare tanta competenza e maturità nelle pagine dei suoi quaderni, quaderni dove peraltro scriveva i primi brevi componimenti già dall’età di sei anni, per una autentica, insopprimibile vocazione alla poesia. Racconta Odyle Ayral-Clause*, la biografa di Sabine a proposito dei successi letterari della bambina, nel 1924:


Quando lo scrittore Marcel Prévost ebbe tra le mani Le petit cèpe (Il funghetto porcino), poesia inviata da una bambina di undici anni, pensò che si trattasse di una mistificazione. [...] D’altronde, in quanto presidente della sezione poesia non poteva eliminare senza prove un componimento di tale qualità. In più, la faccenda aveva acceso la sua curiosità. Voleva vedere da vicino quella misteriosa bambina, per fugare ogni dubbio.

Invitò Sabine e la madre nella sua proprietà di Vianne e le portò a fare una passeggiata. Scorgendo Fafou, il gatto nero di casa, la cui sagoma si stagliava in controluce, chiese alla bimba di dedicargli una poesia. La bimba si mise a improvvisare.

Dopo un po’, quando la poesia fu finita, Prévost dovette rendersi all’evidenza: Fafou valeva la poesia Il funghetto porcino, un piccolo gioiello di duttilità e sapienza botanica; anzi era migliore della prima. Sabine giocava sulla reputazione diabolica dei gatti neri, attribuiva a Fafou un’ambiguità conturbante in cui l’animale familiare pareva nascondersi dietro generazioni di sembianze inquietanti. [...]

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